giovedì 30 luglio 2009

L'avventura di Su Eni 'e Istettai

E’ da un mese che mi preparo a questo momento: le nuotate in piscina in pausa pranzo, un paio di tuffi con la muta in torrente. Non sono del tutto convinta di poter superare senza traumi il temuto sifone che, a circa – 400 m dalla superficie, apre le porte alle esplorazioni in Su Eni ‘e Istettai, la grotta più profonda della Sardegna e soprattutto uno degli accessi al collettore sotterraneo che raccoglie le acque del Supramonte. L’euforia dei nostri amici sardi è contagiosa, e la notizia che il sifone si è accorciato da 6 m iniziali, a 2-3 m attuali mi lascia inizialmente perplessa, ma mi impedisce di trovare ulteriori scuse per starmene fuori.

Ci caliamo nello stretto ingresso verticale, salutanto il tasso secolare (Eni) che qui affonda le radici e dà nome alla grotta. Lo rivedremo tra cinque giorni; lancio un ultimo sguardo al cielo azzurro e alla selvaggia valle di Istettai e comincio a scendere. Qualche minuto di disagio in strette fessure, poi cominciano le calate in pozzi che mi fanno sentire a casa, in qualche grotta veneta: larghi pozzi comodi con pareti bianche. Il piacere di lasciare scorrere la corda tra le mani viene presto interrotto strettoie dai nomi eloquenti..sacrilegio.. violazione di domicilio... Man mano che vinco l’attrito del sacco balena che mi è capitato in sorte penso che con questa serie di fessure siamo già ben sigillati dal mondo esterno.. e poi ci sarà il sifone.. comincia salirmi un po’ di inquietudine, sento la fessura dell’ingresso lontanissima.
Finalmente finiscono le maledette strettoie, comincia il capitolo “neoprene”. Dal campo Bintungas in poi infatti comincia una serie di condotte allagate. Indossiamo le mute, e si riparte. Io in dotazione ho la mia due pezzi da 5 mm, perfetta nei freddi torrenti veneti, ma insopportabile qua sotto! Dopo circa un’ora di progressione vedo gli altri appoggiare a terra i sacchi, e le maschere subacquee appoggiate a lato … siamo davanti al sifone.

L’acqua ai nostri piedi scompare sotto il pavimento che si abbassa, in un blu silenzioso. Carla si tuffa senza indugi, sentiamo lo sciabordio dell’acqua dentro e al di là del passaggio, e poco dopo intravvediamo la sua luce dall’altra parte. Penso che davvero non sono più di tre metri, se ci ha messo così poco e si vede la luce. Non sembra troppo pericoloso.. il mio lato razionale si tranquillizza, ma dopo qualche istante il cuore comincia a battere all’impazzata.. nessun ragionamento riesce a frenare l’emozione e dopo qualche minuto il mio viso è bianco e inespressivo come una statua. Nel frattempo sono passati quasi tutti dall’altra parte, rimango solo io, poi Cesco e Vitto passeranno i sacchi.. lascio cavallerescamente passare avanti i sacchi, pur di guadagnare qualche minuto.. mi concentro.. niente, l’agitazione non passa. Metto la maschera e immergo la testa.. come previsto non si vede nulla, l’acqua ormai è un caffelatte servito alla fresca temperatura di 10°. Decido di entrare anche se non sono per niente lucida, i ragazzi stanno prendendo freddo e sicuramente sta già per uscire qualche bestemmia. 3, 2, 1, e dentro.. tutto marrone.. i sassi del fondale.. i led di Vitto.. sono fuori!! Mi esce un urlo che purtroppo viene immortalato dalla videocamera di Vittorio.. è fatta!! E’ filato incredibilmente liscio.. ed è come un regalo sapere che in un’oretta saremo al campo.

Quando Vittorio superò le prime volte il sifone nel 2003 questo era lungo quasi 6 metri.. armato di trapano ha allargato, spesso in solitaria, i laminatoi su cui ora sto strisciando, e faccio fatica a capire le motivazioni che lo hanno spinto a intestardirsi in tante apnee solitarie e nel lavoro minuzioso in questi stretti passaggi.. finché non lo sento: il canto delle sirene che ha ammaliato l’esploratore.. il forte rombo del torrente che scorre oltre questi ultimi ostacoli, il tanto sognato collettore.
Un ultimo passaggio stretto e siamo a bagno nell’acqua, che negandosi agli aridi paesaggi che ci sovrastano, scivola rapidamente qui sotto e in altri sconosciuti percorsi fino a sfociare, dopo 20 km in linea d’aria, alla sorgente Su Gologone.

Al campo, nel salone R. Mulas, è una gioia abbandonare a terra i sacchi, levare le mute e indossare indumenti asciutti. Prepariamo la nostra tenda da ospiti con una decina di teli termici, e poi via con l’alta cucina.. le due confezioni di tortellini che durante il tragitto hanno già ripreso la loro idratazione, cucinati nella gavetta in alluminio talmente deformata che non sta in equilibrio sul fornellino. Si fa fatica a dissimulare l’invidia quando i nostri amici sardi tirano fuori la batteria di pentole in acciaio inox, i risotti, le spianatine, salsicce, le frittatine fatte in casa da Salvatore e messe accuratamente sotto vuoto.. il nostro sguardo sulle pietanze è dapprima fugace, poi diventa una supplica silenziosa, prontamente assecondata dai nostri ospitali amici.
Ci addormentiamo stanchi e felici, cullati dal rumore del torrente.



Sempre che si possa parlare in termini di giornate quando i bioritmi cominciano ad allentarsi, il giorno dopo ci avventuriamo nell’esplorazione. L’amara verità è che il grande salone dove ci troviamo è una breve parentesi tra due ciclopiche frane: equilibri di macigni salgono fino alla volta, a monte e a valle.
E qui comincia un nuovo folle capitolo: la frana a valle. Ci infiliamo tra i massi, i primi passaggi sono abbastanza stretti e ti obbligano a fare avvitamenti e contorsioni (e infatti l’hanno chiamata Cirque du soleil questa frana bastarda!). Mi dicono che si uscirà dalla frana in circa un ora.. penso che se la progressione è tutta così esco coi nervi a pezzi, ma poi va un po’ meglio, gli spazi tra un macigno e l’altro si fanno più ampi. Evito di pensare ai giochi di equilibrio che trattengono tutte queste masse, rabbrividisco pensando al lavoro fatto col levarino per spostare i blocchi “di troppo”.

Se non bastavano le strettoie e il sifone a sigillarti per bene dal mondo esterno, la frana lo fa definitivamente. Rimetti i piedi e il corpo a mollo nell’acqua e, ormai rassegnato, hai anche smesso di pensare a stare attento a non farti male. Qui non ci sono comode gallerie, è sempre un alternarsi di caos di blocchi, laghi, con scorci anche molto belli con colate e cascate spumeggianti. E’ una bella grotta, ma te la devi guadagnare ad ogni passo. Quasi due ore e siamo alla frana terminale, quella ancora da forzare. Qui la squadra veneta decide di rientrare e dedicarsi a qualche potenziale risalita vista lungo il percorso, la squadra sarda prepara levarino, trapano e incoscienza e scompare nei passaggi.

Siamo al campo, le undici di sera. Accendiamo il fornello. Sulla via del ritorno salendo per un ripido scivolo Francesco ha trovato una bella sala con un grande lago, ma senza prosecuzioni. Omar si è inerpicato su una colata e ha trovato un altro ambiente “instabile” prontamente abbandonato. La squadra sarda non è ancora rientrata e mentre beviamo il the caldo li pensiamo fermi al freddo con Vittorio che si fa strada a colpi di trapano, mazza, e coraggiose leve. Penso che veramente non esiste nessun ostacolo che possa mettere un limite al loro coraggio, che sono mentalmente su un altro livello.. da cui mi sento lontanissima.
Chissà se ce la fanno a passare la frana.. Vittorio era molto fiducioso. Mi infilo nel sacco a pelo.

Mi sveglio.. sono tornati! Sono circa le tre, hanno freddo fin dentro le ossa e sono stanchi.. ma ce l’hanno fatta! La frana è superata! Carla però ha uno sguardo un po’ amareggiato.. mi racconta che la frana è superata, ma che dopo un centinaio di metri c’è un laminatoio sifonante. Anche Massimo, Salvatore e Vittorio sono un po’ delusi … che l’avventura della rincorsa del grande fiume verso valle sia finita? Ormai gli ostacoli si sono accumulati in una somma che scoraggia. Ma poi, evitando l’accecante led guardo meglio lo sguardo di Vittorio.. la delusione è per non aver trovato oggi il risultato sperato, e sotto la stanchezza di una giornata vissuta a pieno vedo lo sguardo brillare.. allora capisco che questo per lui è solo l’ostacolo successivo, l’ennesima sfida che non rifiuterà, e con la mente è già steso con la pancia nell’acqua del laminatoio, a studiare il prossimo passaggio...

Giulia

Mentre pubblico questo post vengo a sapere da Carla che il prossimo week end tornano a esplorare la frana terminale.. buona fortuna e soprattutto grazie per averci guidato in questo viaggio incredibile!
Partecipanti: Carla, Vittorio, Massimo, Salvatore, Francesco, Omar, Giulio, Giulia

Foto: Vittorio Crobu

Altre notizie su questa esplorazione e su ASProS:

www.aspros.it
www.scintilena.com/notizie-dai-campo-interno-in-istettai/07/14/
http://labisso.blogspot.com/2009/07/101- ore-nel-ventre-del-supramonte.html

lunedì 6 luglio 2009

Solo ciò che con te porterai



Scavare, scavare, scavare. Questo ci aspettava l’ultimo fine settimana. Aprire un varco nella barriera di neve del PE 10. E’ strano come un mantello così bianco possa sbarrare la strada verso quei luoghi oscuri, come se la provvidenza venisse ad occuparsi di noi piccoli speleo, a risvegliare nell’ intimo nostro l’archetipa lotta tra bene e male, a suggerirci di non oltrepassare il candido cancello che l’Inverno ha costruito. Ma anche in una visione panteistica, le tenebre acquistano un significato più profondo: solo conoscendole, esplorandone ogni più piccolo anfratto, si può scorgere la luce tanto cercata.
E così, il venerdì sera ci troviamo in casera, con del buon vino, ad aspettare il giorno successivo, a respirare di nuovo l’atmosfera del campo. La luna piena ci dà il benvenuto, mostrandoci i Piani Eterni in una notte limpida e magica, una notte senza tempo, intrappolata nelle previsioni di piogge e temporali. Persino il classico scampanellio delle mucche è rimasto a valle.
E’ solo silenzio… dove non trovano posto sogni e riflessioni, perché la sottile voce dei monti ti parla al cuore. O forse a qualcos’altro…
Ogni tanto il fruscio del vento tra l’erba scatena un’onda di ricordi. Due anni eppure quante emozioni mi vengono a galla, quante ansie, speranze.. quanti insegnamenti. Penso a coloro che vent’anni orsono cercarono in quelle montagne, e trovarono quelle grotte. Adesso son lì con me.
E nei loro occhi si percepisce le saggezza che solo l’empatia con quei luoghi può creare, un segreto custodito là dove la mente vacilla.
L’indomani ci aspetta una sorpresa: l’ingresso è aperto! La neve non ostruisce più il passaggio, solo una lastra vicina al frazionamento prima della serie di traversini è un po’ fastidiosa, ma per l’inizio del campo sarà sciolta. Decidiamo quindi di disarmare il Vincè; prendiamo, per scendere il primo pozzo, la corda d’ingresso del PE 10, in quanto quella del Vincè stesso, che era in un magazzino di rocce lì vicino, è stata trafugata.
Percorrendo il sentiero verso l’ingresso il Cica racconta a me ed Anna del fondo del PE: sembra di essere lì, in quei profondissimi luoghi, ora irraggiungibili, con lui. In grotta il Capp ci racconta di quel giorno, che cambierà la vita di molti uomini, in cui due squadre trovarono nello stesso momento l’ingresso al PE 10 e al Vincè. Nel 1989. Da quel giorno le grotta è diventata un complesso, grande, profondo e difficile. Una vita di storie ed avventure.
Come quando esplorarono per la prima volta il “Diaolin”, il passaggio che siamo percorrendo in questo momento con dei sacchi e pontoniere alle braccia e alle gambe, perché si può passare solo carponi e ci son 10 metri con 40 cm d’acqua sul fondo. Una volta lo facevano solamente con la tuta.. e poi ore di esplorazione bagnati… mi spiegano che “diaolin” è quella sensazione di irrigidimento delle mani e piedi dovuto al troppo freddo, o qualcosa del genere: io credo che quel nome abbia anche a che fare con le bestemmie che risuonarono e ancora risuonano in quel passaggio.
Tutto questo mi porta a riflettere, a rimettere in discussione tante cose, tanti momenti. L’estate di due anni fa, quando scesi la prima volta al bivacco a -450, credetti di capire cos’erano le difficoltà di una grotta.
Quando l’estate scorsa durante la mia prima punta alla locanda aspettavo bagnato e stanco con un freddo cane Jean e Romagna che armavano dei saltini nella parte terminale della Forra dei Poeti, credetti di capire cosa significa sopportare il freddo. E al ritorno, verso l’uscita, arrancando disintegrato dietro i miei compagni che mi aspettavano di continuo, ho pensato di conoscere la fatica. Ma cosa conosco in realtà? Nulla. Ci sono storie, in quei posti, che ti fanno venire i brividi, ti senti tanto piccolo e capisci che la speleologia inizia dove muoiono le tue certezze.
Che le esperienze che provi laggiù mostrano ciò che hai dentro, plasmate dal potere creativo della tua coscienza che parla di millenni passati, fissati nell’oblio dell’inconscio.
Mi torna in mente la battuta di un vecchio film:
“cosa troverò laggiù maestro?”
“solo ciò che con te porterai”.

Io, Capp ed Anna usciamo per primi dopo aver disarmato al di là del Daiolin; Marco U, il Tebe e Sergio disarmano quasi tutto il resto di grotta. Sergio porta in superficie un sacco con un bidone del diametro maggiore del suo girovita, e mi spiace perdermi le sue imprecazioni nelle zone strette dove il sacco si incastrava… all’uscita ci attendono fulmini e pioggia, e fatichiamo a trovare la strada nella notte, stavolta molto nera.
In casera attendiamo il Piroscafo che salito sabato ha fatto un giro in PE 10 con due amici, finchè una bottiglia di prugna accompagna le nostre menti in un meritato riposo…

Jonathan